Nel numero 20/2017 della rivista Strength & Conditioning – Per una scienza del movimento dell’uomo viene, pubblicato (alla pag. 70) dalla, allora appena nata, Scuoletta del movimento
il Manifesto (Dichiarazione di Principio) in merito al movimento dei giovani e alla sua pratica.
Il Manifesto recava la firma di 5 autori/estensori: Pasquale Bellotti; Marco Basilio; Alfredo Bellotti; Giovanni Di Maio; Giulio Rattazzi;
Successivamente, Il 3 Giugno 2017, a Salerno,
Sulla base della dichiarazione di principio si svolse un importante Seminario di Studi dal titolo:
MA NON SARA’ IL CASO DI OCCUPARSI SERIAMENTE DEI GIOVANI?
Pensando di fare cosa gradita Oggi De Motu pubblica quello che fu oggetto dell’allora mia relazione:
Insegnare il movimento e lo sport: la pratica dei gesti che formano e che preparano alla vita, ovvero il “come”
Di seguito e in calce all’articolo riporto una presentazione in formato pdf per supportare la relazione
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Buona lettura Giulio Rattazzi
3.1 Cosa vuol dire “come”?
Con il termine “Come?” si vuole intendere “alla maniera di”, cioè in che modo, con quali modalità proponiamo l’attività motoria quando ci rivolgiamo ai giovani? Cominciamo col dire che “come?” (e non “come!”) non è una parola “risposta” ma una “parola problema”, che non ha un’unica risposta/soluzione, non prevede ricette, poiché nulla è già predeterminato. La formazione giovanile è un processo in divenire, una vera scommessa in assenza di una strada stabilita da seguire obbligatoriamente, poiché come direbbe Antonio Machado:
“Caminante no Hay camino: la strada si fa con il cammino”
Di quale strada si tratta? Di quale cammino?
Come già più volte detto e ripetuto qui, il vero oggetto dell’educazione motoria, il vero scopo del nostro viaggio, è la formazione al raggiungimento della felicità e l’educazione alla vita. Una vera e propria sfida, la sfida dell’ignoto. Viaggio per il quale è assolutamente necessario che l’educatore sia consapevole della propria responsabilità, ed anche dei propri limiti e delle proprie inevitabili carenze: nessuno è infatti perfetto, la perfezione non esiste, epperò è importante che questa missione sia portata avanti bene, con passione, sia concepita come un’impresa da realizzare assumendosi la grande responsabilità che essa richiede; nelle nostre mani è affidata, in questo caso, la vita diungiovane.
Muoversi è esprimersi liberamente. Proporre il movimento vuol dire favorire ricerca, vale a dire favorire nuove scoperte. Purtroppo spesso si cade nell’errore di fornire ai giovani quello che piace e/o che conviene agli adulti, proponendo attività che non differiscono da quelle degli atleti evoluti, come è il caso di esercitazioni ripetute pedissequamente, mentre invece bisogna fare acquisire ai bambini criteri di scelta per conoscere ed essere consapevoli del proprio corpo, insegnare a pensare e non a cosa pensare, a muoversi e non a cosa muovere: insomma, bisogna insegnare ai bambini ad essere liberi, lasciando loro la facoltà di essere, se così si può dire, felici a modo loro. Per poter educare, bisogna amare e restituire al bambino il posto che gli/le spetta
3.2 La centralità del bambino
Solo partendo dalla centralità del bambino è possibile favorire i risultati cercati ed auspicati: il suo benessere fisico e psichico, la sua crescita complessiva, insomma la sua felicità. Ma la centralità del bambino non riguarda solo l’istruttore, essa è un problema di natura etica che appartiene a tutti. Quello della formazione giovanile è, infatti, un problema di tutti e tutti devono collaborare e interagire fra di loro, affinché sia garantito al bambino il diritto di muoversi, di crescere e di essere felice. Forse solo così un domani potremo aspirare a un mondo migliore. Come possiamo insegnare praticamente il movimento per corrispondere a questa così nobile aspirazione? Ad obiettivi tanto nobili? Quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione? La risposta è semplice, è naturale, la risposta è nella natura, è della natura: la risposta più naturale, ma anche quella fondamentale è Il gioco.
3.3 Il gioco
“Il gioco è una cosa seria”. Il gioco è un’attività vitale che non è stata certo inventata dall’uomo e non è prerogativa solo dell’uomo, anche gli animali giocano. Spiegare il gioco non è semplice e non è un argomento che potremmo esaurire in poche righe, non sarebbe possibile. Il gioco – il vero gioco, il gioco naturale – richiede praticamente sempre il movimento. Il gioco è il bisogno prevalente dell’infanzia, un’attività innegabile nel senso proprio che non si deve negare, giocare è un diritto, negare il gioco equivale a commettere un crimine verso l’infanzia.
Ma perché si gioca, perché giochiamo, perché è così importante?
Giocare genera una sensazione di benessere psicofisico; quando giochiamo ci rilassiamo, giocare è svagarsi; per il bambino il gioco – oltre a questo – è anche molto altro: nel gioco, il bambino sviluppa le proprie potenzialità intellettive, affettive, relazionali, sociali fondamentali per formare la personalità: “Grazie al gioco costruiamo anche il nostro destino”.
3.4 Il come del come
Quello della formazione giovanile è un processo complesso [complesso dal latino complexus, tessuto insieme…] che esige di aver ben collocato nella mente la piena comprensione ed il collegamento tra saperi, situazioni, relazioni e inclinazioni, al fine di sviluppare strategie – sia ben chiaro: strategie e non programmi – strategie che consentano di affrontare i rischi, l’imprevisto e l’incerto, e di modificarne lo sviluppo, in virtù delle informazioni che man mano si acquisiscono durante la pratica dei gesti che formano il corpo e la mente, con tutti i significatoi e le relazioni che se ne possono dedurre, e che preparano alla vita. L’azione dell’educatore nasce dall’osservazione, la quale però deve essere perspicace, acuta: la potremmo definire, in altre parole, serendipità, cioè l’arte di trasformare dettagli apparentemente insignificanti in indizi che consentono di ricostruire tutta una storia. Come un detective che, dall’osservazione della scena del delitto, dai particolari anche più insignificanti, arriva a capire chi sia stato l’assassino, così l’istruttore dovrebbe ricostruire la situazione per orientare il gioco e le proposte affinché il bambino possa apprendere e crescere. Educare è in buona parte legare l’esercizio al dubbio, il dubbio all’esercizio, cioè un lavoro in divenire che richiede di essere sempre pronti al cambiamento, di adattare le scelte alle circostanze. Pertanto è richiesto all’istruttore un approccio dinamico di mediazione, affinché gli stimoli emersi dall’ambiente vengano davvero guidati dalle intenzioni dell’istruttore, dalla cultura e dall’investimento emotivo, allo scopo di favorire lo sviluppo delle abilità motorie. L’idea è quella di rifiutare davvero il dualismo mente-corpo, lo sforzo dovrebbe essere quello di concentrare e di enfatizzare nelle proprie proposte l’inestricabile accoppiamento esistente tra i processi cognitivi, il corpo e l’ambiente. I processi cognitivi sono legati alla motricità, il movimento è alla base di ogni genere di apprendimento. Un professionista dell’educazione deve essere capace di operare in contesto proponendo problematiche soluzioni legate al qui e ora, difficilmente riproducibili e interpretabili solo in base a teorie generali sull’apprendimento, quindi l’attenzione deve necessariamente spostarsi sulla relazione tra progettazione didattica e regolazione in azione. Contemporaneamente, l’azione è anche lo spazio-tempo, in cui il docente attua continue micro-regolazioni collocate in un contesto (nel contesto esiste, risiede, ma soprattutto è centrale la persona) sempre soggetto a modifiche. In realtà, perciò, non esiste un solo metodo, a volte potrebbe non esistere nessun metodo, per cui bisogna andare oltre il metodo: e per fare ciò è necessario praticare un pensiero che si sforzi di contestualizzare e globalizzare le informazioni e le conoscenze, per cui si richiede di utilizzare non il programma e la programmazione, ma piuttosto la strategia.
Un circolo virtuoso che è valido solo se viene continuamente nutrito della magia del vincolo relazionale creatosi fra lo stupore dell’educatore e la meraviglia dei bambini:
“Solo lo stupore conosce!” osservava Gregorio di Nissa: e noi parafrasando potremmo accogliere tali parole, per significare che non solo il razionale fa parte del cammino della conoscenza, bensì l’emozionale anche, che può generare conoscenze più profonde e più vere, anche se mai totalmente ed interamente vere.
Tutto verrebbe meno, senza questo stato d’animo e senza questo atteggiamento verso le cose: tutto si annienterebbe come castelli di sabbia al vento.
Lo stupore è vitale, è la benzina che deve muovere sempre le nostre intenzioni.
3.5 “Lo scopo e le regole del gioco”
Il “Come?” dell’educatore è una sintesi di “perché?”, di “quando?” e di “dove?” che guidano consapevolmente le proposte pratiche dell’educatore, mentre il fanciullo gioca e compete in modo gioioso con sé stesso e ovviamente anche con gli altri, al fine di rispettare l’intenzionalità educativa. In ogni gioco che si rispetti vi è un ingrediente importantissimo che non dovrebbe mai mancare, lo definirei il sale dell’attività motoria, perché qualsiasi gioco perderebbe sapore senza di esso. L’ingrediente a cui mi riferisco è l’intelligenza. Motivo per cui il gioco deve essere intelligente, deve essere condotto in maniera intelligente, deve far accrescere l’intelligenza. Attenzione, però, perchè mirare a sviluppare l’intelligenza non vuol dire soltanto pensare di aiutare ad accrescere le qualità logiche di ragionamento; no, la parola intelligenza in realtà sottintende un concetto ancora più ampio. Come sostiene Howard Gardner: “Non esiste una facoltà comune di intelligenza, bensì diverse forme di essa, ognuna deputata a differenti settori dell’attività umana: Intelligenza logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, Intelligenza intrapersonale, intelligenza naturalistica, etica, filosofico-esistenziale
Ognuna delle forme di intelligenza individuate da Gardner, non è a sé stante, dissociata dalle altre: ciascuna di loro influenza ed è influenzata dalle altre e il corpo in movimento rappresenta il fulcro del viatico, entro cui possono interagire tali processi cognitivi.
Qualunque atleta, giovane o adulto che sia, dovrebbe essere in grado di comprendere e di essere consapevole del processo messo in atto, per trovare egli stesso la soluzione al problema, ai diversi problemi, e magari riuscire, quando serva, anche ad autocorreggersi, autonomamente correggersi.
3.6 Come si diventa autonomi?
Cominciamo col dire che una modalità potrebbe essere quella di partire da una parola: PRINCIPIO. Il principio, sta a indicare ciò che viene prima. A monte di ogni processo, conoscenza, quello che deve essere compreso per primo è il principio (non è solo il principio, ma è dal principio che si comincia). Senza conoscenza e comprensione del principio di un fenomeno che vi governa a monte, non vi può essere piena consapevolezza del processo motorio messo in atto. Si può insegnare perfettamente un passaggio, fare un dribbling, ecc. Ma cosa se ne farà mai un ragazzo di queste abilità se non ha realmente compreso quando e in qual misura bisogna applicarle?!? Ad esempio un ragazzo può imparare a partire da un blocco di partenza molto meglio se è a conoscenza e ha consapevolezza piena, beninteso commisurata all’età e alla capacità di comprensione del momento, del terzo principio della dinamica:
«A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.»
Quindi se il nostro atleta è a conoscenza del fenomeno fisico che governa l’azione del partire dai blocchi, egli potrà meglio sperimentare, comprendere, autocorreggere il processo dell’azione messo in atto e che si potrebbe definire come una Meta-corpo-cognizione, cioè la consapevolezza da parte di un individuo della propria capacità e dei propri processi cognitivi-corporei nonché dell’attitudine a modificare le proprie modalità di apprendimento e di movimento.
Come si insegna?
Lo scopo finale deve essere quello di imparare ad imparare: significa riconoscere ed in seguito applicare consapevolmente adeguati comportamenti, strategie, abitudini utili ad un più economico ed efficace processo di apprendimento. L’istruttore agisce in modo da creare un percorso graduale non troppo semplice, né troppo difficile, rispettando la cosiddetta zona prossimale di sviluppo di cui parla Vygotskij, in modo da mirare alla soluzione di una rete di problemi, che servendosi delle soluzioni formulate dai ragazzi, Invita con precise domande a riflettere, auto-regolare, prendere coscienza del processo messo in atto, trovare analogie in altri campi, al fine di generare competenze.
3.7 Multilateralità e plasticità del movimento
L’apprendimento, se non viene vissuto attraverso il proprio corpo in movimento, non può essere pienamente completato:
A dei ragazzini si può insegnare perfettamente un’abilità motoria, ma…!??!
Per esempio, a dei ragazzini si può insegnare perfettamente la corsa ad ostacoli (tecnica, distanza, ritmica, ecc.. ), come si fa con un atleta evoluto Ma…!?!? È questo l’approccio giusto…!?!? Evidentemente No!!! Perché? Si cresce, si cambia, cambiano i parametri, cambiano le situazioni, ciò che è valido oggi, domani non lo sarà più, tutti gli schemi motori registrati come un programma informatico non risponderanno più correttamente al compito motorio Perciò!!! Le abilità non devono essere statiche, a sé stanti, altrimenti servono a poco, Tirare un rigore sempre allo stesso modo con le stesse modalità rimarrà sempre e solo un’abilità statica per cui, quando il problema da risolvere differirà leggermente dal solito, il nostro ragazzo non sarà più in grado di assolvere correttamente al compito richiesto. Le abilità devono essere intercambiabili. Bisogna variare parametri di: spazio, tempo, ritmo, condizioni, ecc, proporre nuovi problemi, stimolare con il progresso ad aumentare la velocità di risposta. Sembrerà strano, ma, per questo aspetto così particolare, il ruolo dell’istruttore è quello di improvvisare e allo stesso tempo di proporre contenuti specifici: si tratta di un concetto importante a cui si dà il nome di multilateralità. La multilateralità consiste nel proporre un numero assai elevato di attività motorie che abbiano il carattere della specificità, ovvero della copertura di specifiche gestualità (da questo punto di vista, non si dovrebbe mai dire che si ci riferisce ad attività di carattere generale, perché queste, in definitiva, non esistono e non possono esistere), per forza di cose sempre diverse e che non permettono di specializzare, perché la specializzazione è la tomba della crescita e dello sviluppo completo per l’allievo.
Un approccio di questo genere deve indurre l’istruttore anche a cambiare la concezione del modo di competere: infatti, oltre a misurare il tempo, lo spazio, dare punteggi, etc. egli deve ricercare altri parametri di confronto come, ad esempio, dopo una corsa veloce, spostare i termini della valutazione con domande del tipo: “Sei arrivato primo, ma quale tempo hai impiegato? Quanti passi pensi di aver fatto? Ecc.” Questo approccio è un processo che mira a favorire la capacità di focalizzare l’attenzione su se stessi, mira a favorire la capacità di percepire il movimento e di autocorreggersi, distoglie l’attenzione dal pensare che il tempo ottenuto (ovvero la prestazione realizzata) sia l’unica cosa importante, allarga il ventaglio degli aspetti da considerare, favorisce nuove modalità di agonismo che aiutano anche i ragazzini meno forti a competere senza incidere in modo negativo sulla propria autostima (uno dei motivi dell’abbandono alla pratica sportiva), aiuta i più forti a non illudersi che diventeranno dei campioni, educa a una competizione sana, educa alla resilienza e a comprendere l’importanza e l’accettazione della sconfitta come situazione inevitabile della propria vita. Va da sé che sbagliano (e gravemente) quegli istruttori che sgridano o peggio ancora offendono il ragazzino, perché non sempre risolve il compito motorio assegnato, perchè, magari, non si è attenuto agli schemi preconfezionati dall’istruttore. Questo è, come detto, un atteggiamento sbagliato perché inibisce la creatività, mortifica la capacità di trovare alternative, tarpa la capacità di inventare o trovare nuove soluzioni.
Diversamente da quanto osservato, la specializzazione deve essere realizzata seguendo il principio della gradualità; in essa deve essere sottolineato che, in una preparazione fisica multilaterale, l’accento deve essere via via spostato su contenuti che, restando numerosi, acquistano – almeno in parte – una somiglianza ed un’affinità sia tra loro sia con gesti tecnici di competizioni ben precise.
3.8 Come il gioco diventa pericoloso?
il gioco e, ancor di più, lo sport, rappresentano una metafora della vita e contengono già nella loro natura gli elementi che preparano alla vita. Giocare e competere nello sport equivale a imparare a vivere nel modo migliore che si possa fare, ma il gioco esige la presenza di un educatore o, meglio, di un mediatore affinché possano essere apprese quelle abilità che preparano alla vita, motivo per cui se il gioco viene condotto in modo sbagliato o meglio se il gioco perde la sua essenza, quella che lo fa essere tale, può diventare dannoso. Nel gioco e nello sport si compete, ci si confronta, ci si misura, ci si relaziona, si trasmettono valori. Motivi per cui l’istruttore assume un ruolo centrale, molto delicato, un ruolo determinante che può influenzare la vita di una persona sia in modo positivo che in modo negativo: quindi è necessario sapere che esistono modalità corrette e modalità viceversa scorrette relativamente a come proporre l’attività motoria. Il rischio di far diventare un gioco un gioco pericoloso esiste ed è anche grande, se non si conoscono gli strumenti e non si conoscano o vogliano considerare i rischi. Man mano che il bambino cresce, con il tempo è inevitabile che il gioco motorio subisce una metamorfosi per diventare sempre di più un’attività che si avvicina allo sport, fino a cambiare quasi del tutto di profilo.
2.9 Ma qual è la differenza tra il gioco e lo sport?
La competizione è l’ingrediente principale che distingue il gioco dallo sport. La competizione, genera agonismo, la competizione è madre dell’agonismo, l’agonismo è una caratteristica fondamentale dello sport molto delicata che, se non gestita in modo etico, può essere causa di problemi sia per la salute fisica, sia per la salute psichica, comportamentale, valoriale e relazionale del ragazzo. Di per sé l’agonismo non è un disvalore, anzi, l’agonismo è un grande valore, la vita non sarebbe vita se non esistesse l’agonismo. L’agonismo e la competizione sono elementi presenti in ogni dove, in ogni ambito e attività della vita, e lo sport è certamente, in assoluto, il mezzo più importante per apprendere e comprendere questo modo di essere imprescindibile della persona, addirittura lo sport non esisterebbe se non vi fosse agonismo, tutto verrebbe meno, non vi sarebbero competizioni sportive, ma non vi sarebbe alcuna forma di relazione tra umani.
Allora perché l’agonismo può essere causa di tanti problemi?
La maggior parte dei problemi esistenti, se non l’unica causa delle piaghe dello sport, come ad esempio, la specializzazione precoce, il doping, infortuni, problemi della crescita, problemi relazionali, problemi psichici e fisici, ecc. nascono, a mio avviso, per mezzo dell’agonismo e della competizione, ma in realtà la causa dei problemi non bisogna cercarla nella competizione, non è l’agonismo e non risiede nell’agonismo. La causa dei problemi è nei valori che vengono trasmessi nella pratica dello sport, lo sport è un vettore di taluni valori e se i valori trasmessi durante la pratica dello sport sono sani avremo, di conseguenza, uno sport sano; ma se i valori sono malsani avremo uno sport malsano: l’agonismo in tutto ciò rappresenta soltanto l’amplificatore di quanto contenuto nell’animo umano,
Il modo in cui la gente gioca mostra qualcosa del loro carattere. Il modo in cui perde lo mostra per intero.
(Harvey B. Mackay)
La pratica sportiva può contribuire ad instaurare nel bambino e nell’adolescente una corretta visione dell’agonismo e di come sia possibile favorire uno sviluppo valoriale armonico che, partendo dallo sport, coinvolga l’intera vita dei soggetti. Ma vale anche al contrario, giacchè la pratica sportiva può contribuire ad instaurare nel bambino e nell’adolescente una vera e propria degenerazione valoriale, che partendo dallo sport coinvolga l’intera vita dei soggetti.
Il problema è quindi, prima di tutto, di tipo etico:
Quando questi valori non sono corretti nascono problemi scaturiti dalla ricerca della vittoria ad ogni costo, a volte anche con mezzi illeciti, senza curarsi del rispetto delle regole (le regole valgono solo “per gli altri”): l’avversario non viene rispettato ma considerato come un nemico, come una persona da schiacciare e da sopprimere senza esitazioni di tipo etico e morale. Purtroppo, non dovrebbe essere questo lo sport, questo è uno sport senza amore. Una vittoria portata avanti in questo modo è una sconfitta per la nostra società e per i nostri figli, educare alla vittoria a ogni costo non è educare ma diseducare, diversamente è molto più educativa la sconfitta, la vittoria non permette di crescere mentre la sconfitta lo consente, perché permette di maturare e prepararsi alla vita. Ciò non vuol dire insegnare a perdere: a nessuno piace perdere. Ma, comunque, la vittoria è un problema assai più pericoloso della sconfitta, anche se essa viene conseguita nel rispetto delle regole e dell’avversario.
Ma gli allenatori, gli istruttori sono davvero preparati a questo tipo di lavoro, così vasto, così poliedrico, così controcorrente?
Giulio Rattazzi
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